
Violenza nei confronti del personale sanitario: a chi rivolgersi e come difendersi
a cura di Daria De Causis
“ Ciò che mi spaventa non è la violenza dei cattivi, è l’indifferenza dei buoni”
Martin Luther King
La violenza sul luogo di lavoro è un problema diffuso che coinvolge gli operatori sanitari delle strutture ospedaliere e territoriali. In ambito di sicurezza, il rischio di molestie per le professioni sanitarie quali: medici, infermieri, psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, paramedici, operatori sociali, ecc è maggiore rispetto ad altre professioni.
La varietà dei comportamenti che possono essere compresi nel termine violenza sul lavoro è molto ampia e il confine con i comportamenti accettabili è spesso così vago e la percezione di cos’è la violenza nei differenti contesti e nelle diverse culture è così diversa, che definire il fenomeno della violenza sul lavoro è molto complicato. Questo rende difficile sia la ricerca che lo sviluppo di strategie di prevenzione e di intervento univoche per combatterla. Inoltre, le percezioni poco chiare degli operatori su come bisogna intendere i termini abusi, minacce o aggressioni, hanno un impatto negativo sulla loro decisione di segnalare l’evento.
Per Cooper e Swanson e l’International Council of Nurses, la violenza sul lavoro include: la violenza fisica e psicologica, i maltrattamenti, il mobbing o il bullismo, le molestie razziali e sessuali e può comprendere le interazioni tra colleghi, supervisori, pazienti, familiari, accompagnatori e visitatori.
I numerosi e recenti fatti di cronaca ci dimostrano come sentimenti di rabbia, dolore e frustrazione dei pazienti e parenti, trovino facile sfogo nei confronti del personale medico, infermieristico e sociosanitario, spesso coinvolto in un’esperienza di violenza che può consistere in una aggressione di natura verbale e/o fisica, attenzioni sessuali indesiderate soprattutto nei confronti delle donne, oppure in un evento criminoso di altro genere che può portare a lesioni personali anche importanti, fino al decesso.
Nessun contesto è esente da episodi di violenza, anche se esistono situazioni a rischio più alto.
I reparti di degenza in cui si riscontra una frequenza maggiore sono quelli psichiatrici, di ortopedia-traumatologia, nel pronto soccorso, nei servizi di emergenza-urgenza o di lungo degenza oltre alle terapie intensive. Un ragionamento analogo riguarda le cure domiciliari che sono un contesto particolarmente difficile da controllare ma nello stesso tempo a rischio elevato, per la possibilità di elementi di pericolo aggiuntivi, come la presenza di armi e stupefacenti, una situazione di violenza domestica o di inclinazione a delinquere. Il 61% degli operatori sanitari impiegati in questo contesto riferisce di avere subito violenza.
Spesso molte aggressioni non vengono denunciate, forse come risultato di un’abitudine o normalizzazione di questi atti nel contesto lavorativo, considerando il rischio di comportamenti aggressivi come implicito della professione. Spesso si instaura nell’operatore sanitario un sentimento di tolleranza, maggiore se il paziente ha patologie a suo carico o una riduzione della capacità di intendere e di volere, anche a causa di alcool o droghe, che possono avere innescato la violenza. Si tende quindi a giustificare il paziente per la sua sofferenza o patologia degenerativa oppure perchè si ritiene non volesse realmente commettere l’azione o perché alla fine ci si è spiegati con l’utente violento oppure il tutto si è risolto.
La vittima tende a considerare quindi meno grave un’aggressione subita durante il lavoro rispetto ad un’aggressione subita nella vita privata. Se ne deduce quindi la difficoltà nello stimare la reale dimensione del problema. Spesso la mancata denuncia o segnalazione non avviene perché in molti contesti non esiste o non è previsto uno strumento di report o modalità di segnalazione chiare ed efficaci.
RIPERCUSSIONI SUL PIANO EMOTIVO E PSICHICO
“Non c’è salute senza salute mentale” e la violenza è tra i più importanti fattori predittivi di disturbi psicosomatici e psichiatrici. Dopo un evento traumatico si riscontra un aumento degli stati d’ansia, dei sensi di colpa, dei sentimenti di rabbia e di frustrazione, dei pensieri intrusivi, della sensazione di pericolo, dei disturbi del sonno oltre ad una riduzione della motivazione all’attività lavorativa. Molti operatori sanitari hanno dichiarato di ricorrere all’uso di psicofarmaci, soprattutto benzodiazepine ed antidepressivi, per sedare ansia e depressione, senza alcuna prescrizione medica da parte di uno specialista in psichiatria. L’assunzione non controllata di psicofarmaci, in assenza di una diagnosi precisa e di un percorso specialistico appropriato, rappresenta un serio pericolo per gli operatori, con il rischio di cronicizzare il loro malessere.
La psicoterapia è fondamentale affinché questi disagi non evolvano verso condizioni di sofferenza cronica, di disturbi post-traumatici da stress o di demotivazione lavorativa (burn out) con le relative assenze prolungate per malattie, bassa qualità lavorativa e richieste di trasferimenti.
Le più recenti evidenze scientifiche della Psicologia dell’Emergenza ci indicano come un tempestivo intervento di supporto psicologico entro le 96 ore dall’evento possa già mitigare significativamente l’impatto emotivo e facilitare una prima e rapida attenuazione dello stress.
Esiste un CICLO DELLA VIOLENZA ed è possibile coglierne l’origine attraverso l’osservazione di comportamenti definiti pre-violenti, premonitori di un possibile atto di aggressione. Nella fase iniziale il potenziale aggressore manifesta un aumento della tensione con conseguente aumento della rabbia, successivamente può diventare resistente all’autorità per poi risultare conflittuale e violento. Durante questo ciclo sono tangibili alcuni comportamenti pre-violenti tipici, tra i quali 6 sono i più comuni: la confusione, l’irritabilità, la chiassosità, le minacce fisiche e verbali e le manifestazioni di rabbia contro gli oggetti. Altri campanelli di allarme sono costituiti dai comportamenti provocatori o di rabbia, dal camminare avanti e indietro, dal parlare ad alta voce, dalla postura tesa e dai cambi frequenti di posizione. Per questo motivo alcuni autori ritengono che l’abuso verbale spesso non sia altro che il preambolo della violenza fisica, ciò sostenuto anche dal fatto che spesso le due forme coesistono.
La violenza può verificarsi sul luogo di lavoro nonostante le misure preventive messe in atto, per questo gli operatori devono essere preparati alle possibili conseguenze degli atti di violenza e devono essere cauti e vigili quando si avvicinano ai pazienti ed ai visitatori.
Nell’aggressore spesso scatta un meccanismo di frustrazione per un’aspettativa che non viene soddisfatta, un paziente, o un suo familiare, si aspetta un certo tipo di attenzione con determinate modalità e, se non riceve ciò che ritiene essere un suo diritto, mette in atto un comportamento aggressivo. Questo vale anche nei contesti di urgenza, spazi sovraffollati dove il paziente è costretto a lunghe attese senza ricevere informazioni e senza poterle facilmente reperire, in aggiunta a una condizione personale di sofferenza e malattia, innescano con maggiore probabilità l’atto violento nei confronti di medici e infermieri che, pur non essendo i diretti responsabili, sono l’interfaccia verso l’utente dell’intera struttura sanitaria e della sua organizzazione.
Un altro meccanismo scatenante è il fallimento della comunicazione tra operatori sanitari e pazienti. L’efficacia e lo stile della comunicazione dipendono dall’età, dall’esperienza e dal bagaglio culturale, dal livello di stress e di stanchezza di entrambe le parti, dalle capacità cognitive del paziente, dal livello di responsabilità dell’operatore sanitario ed è importante interrogarsi sulle proprie modalità di comunicazione per migliorarle quando è necessario.
STRATEGIE DI PREVENZIONE E INTERVENTO:
- L’attivazione di un percorso di formazione specifico per l’acquisizione di competenze da parte degli operatori nel valutare e gestire gli eventi quando si verificano;
- Uno screening periodico per la valutazione del rischio di violenza, della presenza di stress e di disturbi psicologici/psichiatrici;
- L’istituzione di sportelli d’ascolto e di centri specialisticidedicati alla prevenzione, alla cura ed al reinserimento lavorativo degli operatori vittime di violenza.
MODALITÀ DI SEGNALAZIONE DELL’ATTO DI VIOLENZA
Gli atti di violenza verso gli operatori sanitari sono considerati degli eventi sentinella in quanto segnali di situazioni di rischio o di vulnerabilità.
La segnalazione di un evento sentinella deve essere fatta all’Osservatorio nazionale degli eventi sentinella, incardinato nell’Ufficio della Direzione generale della Programmazione sanitaria del Ministero della salute, attraverso il Sistema Informativo per il Monitoraggio degli Errori in Sanità (SIMES) che utilizza la piattaforma informatica dedicata.
Nel caso in cui si verificasse un atto di violenza l’operatore deve informare immediatamente la Direzione Sanitaria di Presidio o il Responsabile del Servizio interessato, che comunicherà l’accaduto al Direttore Medico del P.O./Direttore di Distretto, al Risk Manager e al Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione; se possibile dovrà recarsi immediatamente al Pronto Soccorso per l’accertamento sanitario e l’apertura delle procedure previste in caso di infortunio sul lavoro, descrivendo al medico di turno le modalità dell’accaduto.
La legge n.113 entrata in vigore il 24 settembre 2020, ha previsto un inasprimento e la procedibilità d’ufficio in caso di violenza contro il personale sanitario. L’obiettivo della legge 113/2020 è stato quello di tutelare quei lavoratori che sono spesso il “bersaglio” di comportamenti offensivi e violenti frutto dell’odio, dell’ignoranza e della frustrazione altrui, tutte condizioni che durante la pandemia sono esplose o si sono acuite. Questa legge, seppur arrivata con sforzi e fatica può considerarsi solo un punto di partenza perché la strada verso la sicurezza è ancora lunga. Servono ancora tanta formazione agli operatori, procedure aziendali che garantiscono di lavorare in piena sicurezza e una maggiore tutela dei diritti, perché bisogna prendersi cura di chi si prende cura di noi.
In presenza di paziente agitato Strategie comportamentali PER TUTTI GLI OPERATORI:
- Usare un tono di voce basso, rivolgersi direttamente all’utente senza guardarlo fisso negli occhi ed usando un linguaggio semplice e facilmente comprensibile, con frasi brevi;
- E’ sempre opportuno presentarsi con nome e qualifica professionale;
- Posizionarsi a fianco del paziente con un asse di circa 30° perché la superficie esposta a colpi è minore ed inoltre in questa posizione si comunica più disponibilità al dialogo;
- Modulare la distanza dal paziente secondo i principi di prossemica: distanza di sicurezza a 1,5 mt.
- Evitare di posizionarsi con le spalle al muro in un angolo (ad es. tra la scrivania e il muro) per disporre sempre di una via di fuga;
- Non toccare direttamente il paziente prima di aver spiegato cosa si sta per fare e non invadere il suo spazio;
- Avvicinarsi al paziente con atteggiamento rilassato e tranquillo, le mani ben aperte e visibili, evitando di incrociare le braccia e le gambe;
- Non raccogliere atteggiamenti di provocazioni o sfida, quanto piuttosto fornire spiegazioni oggettive e comprensibili riguardo ciò che sta avvenendo, evitando giudizi e sarcasmo;
- Mostrare disponibilità all’ascolto, raccogliendo le parole del paziente, senza spostare il discorso su altri temi;
- Negoziare con il paziente ponendolo di fronte a scelte alternative;
- Non portare mai con sé oggetti contundenti, taglienti e potenzialmente pericolosi.
- Evitare di rimanere solo con il paziente; qualora il paziente richieda di parlare con uno specifico operatore, accettare facendo in modo che, in caso di emergenza, altri possano comunque intervenire.